A Luciano
19 marzo 2018
Alle elementari ci conoscevamo già. Eravamo tra i più alti delle rispettive classi, ma lui era anche allora il torello che è stato per tutta la vita. Con Luciano era meglio non fare a cartellate, come si usava in quei tempi, ci si rimetteva.
Così è cominciata la nostra amicizia. Lui rustico abitante del pian di Vagna, come diceva vantandosene, io più “cittadino”, una menomazione per me agli occhi di allora.
Ah, se avessimo saputo che curato e accurato signore sarebbe diventato poi!
L’adolescenza fu l’epoca delle scorribande nei prati che a quel tempo circondavano la periferia di Domo, racchiusa tra il letto del Bogna e le pendici del Calvario e del Lusentino. Con Angelo, Roberto e altri scavezzacollo combinavamo tutto ciò che avrebbe tolto il respiro alle nostre madri se ci avessero visto.
Più avanti cominciarono le stagioni dei filarelli. Iniziò anche il confronto, a volte aspro, tra me e lui, due galletti nel pollaio, due maschi alfa (maschietti alfetta, meglio) che disegnavano le gerarchie nel branco. Capii subito che sul piano fisico non c’era competizione. Era più forte di me, più resistente di me, più agguerrito di me, potevo solo avere la peggio.
Su altri fronti, quello intellettuale, speravo un po’, ma era durissima anche lì. Luciano aveva un cervello brillantissimo, senso dello humor, perspicacia e, crescendo, acquistò anche cultura, grande cultura. Oggi lo reputo una delle persone più intelligenti conosciute nella mia vita; diventare grandissimi amici, invece che rivali, fu la scelta migliore e anche più spontanea visto che affetto, stima e amicizia non mancarono mai.
Da giovinotti condividemmo altre avventure. Fummo soci in un velleitario allevamento di maiali che fruttò tanto lavoro, nessun guadagno, ma ci diede un’immensa ricchezza immateriale: risate e divertimento infiniti. Ci inventammo una prima avveniristica festa a Vallesone, fummo insieme all’Università a Milano (ma in facoltà diverse), ci sbeffeggiammo per le prime morose, andammo tante volte in montagna anche se, inutile dirlo, lui era di una categoria superiore. Insieme iniziammo a cantare in coro, passione che abbiamo condiviso ininterrottamente. Grande fu la gioia quando riuscimmo a fare esibire i nostri rispettivi gruppi vocali in concerti condivisi.
Poi venne la stagione della maturità: mogli, figli, famiglia. Io abitavo in Brianza, ma ci si vedeva spesso e alcune volte si fecero vacanze congiunte con la tribù di marmocchi e consorti.
Ci si raccontava le rispettive esperienze professionali, le vicende lavorative, i viaggi. Lui era interessato al mio mondo di computer, io affascinato del suo lavoro a contatto con la natura, con i boschi, gli alpeggi, le strade campestri. Mentre mi districavo tra bit e byte (nessun rimpianto, per carità!), Luciano costruiva due capolavori quali il Gattascosa e, gioiello assoluto, la Tensa, realizzazione che porterà il suo nome e il marchio della sua genialità per sempre.
Con l’inizio della terza età ci avvicinammo ulteriormente. Avevamo più tempo per noi e quando si poteva lo si condivideva. Qualche anno fa salimmo insieme in vetta ai quattromila del Gran Paradiso, poco più che una passeggiata per lui, un’impresa per me. Corremmo insieme la Maratona di Roma, dove lui arrivò un buon quarantacinque minuti prima. Non me la presi, fin da bambino avevo accettato questo divario.
Otto anni fa ci inventammo i raid cicloturistici esotici. Luciano in solitaria era già stato in Vietnam con la bicicletta, fu lui a progettare il mitico viaggio in India, tra le rive del Gange, il deserto del Rajasthan e New Delhi. Nacque il mio primo libro dove sbeffeggiavo me stesso, i compagni e poi lui, il mitico Luciano, leader per indole e qualità.
In un passo del libro lo definii prepotente (ironizzavo e sfottevo, ovviamente). Lui mi rimproverò piccato, dicendo che avevo sbagliato aggettivo.
«Cosa avrei dovuto scrivere?» gli chiesi.
«Volitivo» rispose serio.
Aveva ragione.
Altre volte lo prendevo in giro dicendogli che era diventato famoso in tutta l’Ossola grazie al mio libro. La cosa era così assurda che non rispondeva neppure, si limitava a sfoggiare quel sorrisetto sardonico, suo marchio di fabbrica. Chiunque l’abbia conosciuto ricorderà per sempre quel sorriso.
Poi abbiamo fatto altri viaggi e io ho pubblicato un secondo libro con lui al centro.
Recentemente ci si sentiva al telefono, vagheggiando di ripartire in bici. Ci si lamentava degli acciacchi che alla nostra età aumentano in modo preoccupante.
Entrambi confessavamo l’un l’altro una paura, uno spettro davanti a noi: il momento in cui le forze e il corpo ci avrebbero detto lentamente ma inesorabilmente: basta!
Anno dopo anno Luciano misurava la capacità ancora integra di impegnare il fisico: salire al Lusentino in bici in tempi accettabili, compiere un’ascensione in montagna a “modo suo”. L’anno scorso un incidente in bicicletta l’aveva bloccato. Volitivo (appunto!) come sempre, si era ripreso, bruciando le tappe e mi aveva raccontato di essere salito al Lusentino spingendo sui pedali dopo qualche mese di forzata immobilità. Per la prima volta, arrivato quasi in cima, aveva dovuto mettere i piedi a terra. Un sacrilegio per lui, un’offesa al suo amor proprio! Si era ripromesso di annullare quel deficit e ritornare all’usuale potenza.
La sfida era sempre e solo con se stesso.
Luciano non poteva invecchiare. La mesta vecchiaia, il progressivo cedimento fisico che ti impedisce di fare sport per lui non sarebbe stato l’inizio della strada verso la morte, no, sarebbe stata la morte in vita, in attesa della liberazione finale.
Luciano era un guerriero. Adesso che non c’è più capisco che la sua immagine, la sua vicenda sono quelle degli eroi omerici. Ettore, Aiace, Achille, Ulisse, eternamente giovani, magari vinti, ma mai sconfitti. Anche la sua battaglia lassù sulle nevi del Lusentino è stata epica e lui, come un eroe mitologico greco, ha lottato contro il mostro che lo insidiava.
E ne è uscito vincitore, perché la valanga che lo ha ucciso non era l’avversario, era l’arma con cui lui ha trionfato sul drago, sul mostro che lo minacciava: la vecchiaia.